A distanza di qualche anno dallo “studio” presentato a Villa Imperiale nel luglio del 2011, torna in una forma del tutto nuova “Tutto matto: c’erano una volta gli anni ottanta” di Daniele Vecchiotti.
Lo spettacolo, prodotto da Officine Papage, sarà al Teatro Stabile di Genova (sala Duse) dal 14 al 17 aprile 2014 (20h30) e vedrà in scena Marco Pasquinucci e Ilaria Pardini.
La promessa è quella di un tuffo nel passato, ma non solo: gli anni ’80 tornano con le loro tinte forti, gli abiti sgargianti e le pettinature esagerate, la voglia di leggerezza e il disimpegno che si respirava nell’aria, con milioni di schermi televisivi sempre accesi e spot che cadenzano la quotidianità.
Scandito da jingle televisivi entrati oramai nel DNA della cultura pop contemporanea, lo spettacolo racconta lo spaccato di un’epoca: la voglia di spensieratezza, l’entusiasmo ingenuo ed effimero del benessere, l’euforia fiduciosa e cieca nel “nuovo”.
La musica e le canzoni (interpretate dal vivo) intervengono come snodi drammaturgici a spiegare l’emozione dei personaggi o imprimere un passaggio di senso nella storia. La forza evocativa dei ritmi musicali arriva come un’onda che richiama atmosfere tutte colori fluo e paillettes.
Anche lo spazio scenico, suddiviso in zone d’azione, si ispira a un vero e proprio feticcio degli anni ottanta: il cubo di Rubik. E proprio come le mosse del gioco, per arrivare all’agognata soluzione, la drammaturgia di “Tutto Matto” si snoda, avanza geometricamente sino al suo esplosivo epilogo.
Tra grotteschi e paradossali colpi di scena, sempreverdi cult dell’epoca, spalline giganti, colpi di gel “effetto bagnato”, la scanzonata favola d’amore tra Alice e Sebastiano vuole anche diventare pretesto per una riflessione sul vivere contemporaneo. Così, mentre oggi sul web non fanno che moltiplicarsi le pagine nostalgiche di Polaroid, hula hop, walkman, Pippo Baudo, Drive In e chi più ne ha più ne metta, “Tutto Matto” ha un doppio volto: leggero ma anche graffiante.
Lo spettacolo diventa occasione per guardarsi indietro e osservare, non senza un amaro retrogusto, da dove veniamo e cosa siamo diventati.